EDITO

LA MULTIFORME BABELANDIA CONTEMPORANEA

Mantenendo salda per il 2023 la scelta tutta al femminile che ha portato, già l’anno scorso, solo artiste donne nella programmazione del festival, (una goccia nell’oceano se si spera in un riequilibrio), sono tornata ad interrogarmi su cosa accade nella scena europea contemporanea.
Ho letto copioni, selezionato spettacoli altrimenti invisibili. Ho recuperato, forse desueti, interrogativi.

Qual è oggi il rapporto tra spettatori e scena? Tra spettatori e attori/performer? Cosa rimane del dispositivo scenico e drammaturgico? Cosa resta del corpo e del suo potere di rappresentazione, che aiuta a creare e rafforzare le narrazioni del presente, ma che può essere anche un luogo sovversivo per sabotare le grandi narrazioni?  E dove e con quali forme tutto questo si incontra?

Alcuni di questi interrogativi sono al centro di questa edizione del festival. Cosa è rimasto della partitura verbale (non della rappresentazione)? Cosa della drammaturgia del movimento e del corpo? Esistono o possono esistere ancora dei fili tra parole scritte/testo e gli esseri umani/spettatori?
Tra corpo e drammaturgia e tra questi e lo spettatore? E come si mostrano? L’obiettivo non è quello di mettere a confronto o in contrapposizione il valore che il testo teatrale aveva nella teoria aristotelica con il fatto che il teatro contemporaneo ha messo in atto (esempi, per citare i più famosi, vanno da A Letter for Queen Victoria di Robert Wilson – 1974 al Giulio Cesare shakespeariano di Romeo Castellucci -1997) una decostruzione della dominanza logocentrica.
È  evidente che in un panorama così articolato, eterogeneo e vasto, non è possibile, e non avrebbe senso chiedersi se resta qualcosa di unificante, per una teoria che si candidi a cogliere tutto questo complesso. Ma ritornare a dare un senso a questi interrogativi tutti interni al “teatro e al suo mondo” e capire se e come si realizza una ricaduta reale, mi sembra interessante.
La risposta alle mie riflessioni provo a darla con una curatela multiforme che da una parte propone artiste che ritornano ad un uso fortemente semantico della parola/testo e dall’altra performer che usano il corpo come strumento fortemente drammaturgico.

La parola
Mujer en cinta de correr sobre fondo negro
della spagnola Alessandra García è prima di tutto un copione, poi uno spettacolo ma soprattutto una radiografia dei quartieri umili di qualsiasi città. Con questa storia l’artista sul suo tapis roulant fa “accadere” il mondo sul palco.
Gruppo di famiglia in un interno…. una tragedia moderna senza uscita. Con Il disperato ritorna al FIT l’olandese Marleen Scholten, con un testo su una famiglia come tante, forse con pochi soldi, comune insomma. Chi è questa famiglia comune? E come si fa a salvare gli altri, se non siamo in grado di salvare noi stessi?
Sempre in un interno. Sempre una famiglia. Sempre una trama di parole prima di essere scena. Come parlare di patriarcato? Questa è la domanda che Winter Family, di ritorno al FIT, si pone in Patriarcat. Non è solo una questione di sostanza ma anche di forma. Un gioco di mise en abyme inquietante, corrosivo e indisciplinato.
Ma il climax di questa scelta verso la “parola” lo raggiungono due artiste in scena. Rubidori Manshaft con Alcune cose da mettere in ordine propone la storia di una donna appena aldilà della soglia dei sessanta anni, che inizia a porsi delle domande sul percorso della vita. Un viaggio interiore e reale, un montaggio di eventi, struggente, ironico nel gioco che la vita compie nel tentativo di ridisegnare una dimensione umana e fragile, forse, oggi smarrita.
Daria Deflorian, invece, ritorna al festival con Elogio della vita a rovescio, un progetto liberamente ispirato a La Vegetariana di Han Kang (Man Booker International Prize 2016). Quello che ci appassiona – dice la Deflorian – è scrivere, attraversando i suoi mondi letterari, di una possibile – e impossibile – risposta alla violenza del mondo. Come è possibile resistere alla violenza senza esercitare una violenza di reazione?

Ibridi
Anche quando a scrivere un racconto su un album di fotografie, sia pur scarno, è Camilla Parini/Collettivo Treppenwitz, performer e autrice con una vocazione intima, si ritorna a creare fili tra spettatore e scena. Je suisse (or not) è una narrazione del ricordo, un incontro uno-a-uno dove la Parini compone e scompone un’idea di famiglia, di appartenenza identitaria e di memoria.
¡AY! ¡YA! è invece un esercizio sullo sguardo. Quell’illusione che si verifica quando l’immagine davanti a noi si trasforma in un’altra, si moltiplica o assume forme impossibili. Corpi con più arti, incompleti, trasformabili e plasmabili. Un pezzo di danza performativo della spagnola Macarena Recuerda Shepherd che mostra, in modo molto semplice l’essenza del teatro svelando il trucco.

Il corpo
Dal teatro si passa alla danza con Kick Ball Change degli svizzeri Charlotte Dumartheray e Kiyan Khoshoie. Tutto inizia come una semplice competizione e finisce come un loop in cui ci rinchiudiamo, per diventare metafora danzata dei rapporti umani.
Corpo con Demain est annulé di Tabea Martin, che ci interroga sulle rivoluzioni come punti di svolta nella storia. Cosa serve per generare il cambiamento? Una performance sull’impossibilità, la voglia e il desiderio di cambiamento.

Paola Tripoli
Direttrice artistica FIT

FUORI DALLE TENTAZIONI
LA RICERCA DELLA RICERCA
LA FORZA DI UN PERCORSO

Con determinazione, coraggio e vero spirito di ricerca continua l’esplorazione del FIT nell’universo artistico al femminile. Sottolineo il valore della ricerca della direzione artistica, perché creare un programma coerente e organico, quando l’obiettivo dato è duplice, ovvero puntare solo su artiste donne e puntare su temi cari al festival, non è per niente scontato. Eppure, ogni anno il festival ci sorprende perché sa mettere insieme saggiamente artisti maturi e vere e proprie scoperte. Il festival dunque, fuori dalle tentazioni mainstream, si pone l’obiettivo di mostrare al pubblico un percorso, suggerire allo spettatore uno sguardo curioso, senza preconcetti, verso quelle esperienze performative e teatrali talmente nuove da permettersi anche la possibilità di fallire. La possibilità che la performance non funzioni mi sembra la vera forza del nostro festival, perché, io credo, la vera ricerca sta proprio lì, in quella possibilità. Parlavo non a caso poc’anzi di percorso. Ogni nuovo percorso prevede ostacoli, fermate, marce indietro, ma anche veri e propri balzi in avanti, la scoperta di nuovi sentieri, che in un programma culturale costruito sulle certezze e sui nomi sarebbe impensabile.

Il FIT sa distinguersi dagli altri festival proprio per questa sua natura: ricerca vera sotto lo sguardo attento e la cura della direttrice Paola Tripoli e del suo team. Una ricerca della ricerca. Accanto ad artiste che negli ultimi anni abbiamo imparato ad apprezzare, come Tabea Martin, Marleen Scholten, Daria Deflorian, Rubidori Manshaft (alla sua prima vera regia teatrale), siamo fortemente in attesa di vedere artiste davvero innovative, quali le spagnole Alessandra Garcia e la Shepherd, accanto a Dumartheray e Khoshoie dalla nostra Svizzera. Un felice ritorno invece, molto atteso, è il nuovo lavoro di Winter Family, un lavoro che appare importante e necessario già dal titolo: nel cambio di paradigma di vita così evidente, sia nell’arte che nella società, ragionare sul Patriarcato, senza ideologismi o ciniche critiche, ma con sguardo attento e profondo, è fondamentale. In ultimo, ma non per importanza, siamo lieti di ospitare al LAC, all’interno del Festival, il giorno 6 settembre, la cerimonia di consegna dei premi agli artisti svizzeri più meritevoli, alla presenza, e ne siamo onorati, del consigliere federale Alain Berset.

Carmelo Rifici
Direttore artistico LAC